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(Foto: Brenda Santos de la C.)

Il femminismo è la lotta delle donne per il buen vivir

(Foto: Brenda Santos de la C.)

Francesca Gargallo ha iniziato a riconoscersi come femminista molto presto. La dinamica che porta all’oppressione delle donne è stata la chiave che le ha permesso di capire la società e lottare contro le ingiustizie.

Il suo amore per l’America Latina è nato a 23 anni. Quando nel 1980 è arrivata in Nicaragua ha conosciuto l’entusiasmo rivoluzionario, in un’epoca in cui “purtroppo le rivoluzioni erano ancora incentrate sull’idea di uno Stato-nazione”. 

Era partita dall’Italia mossa dal sentimento internazionalista che in quell’epoca spinse molti giovani a conoscere e appoggiare la rivoluzione sandinista nicaraguense. Ma dopo un anno decise di lasciare il paese. “Innanzitutto perché non sopportavo il caldo”, dice ridendo. “E poi perché c’era tantissimo maschilismo tra i rivoluzionari. Se ti ribellavi contro le espressioni maschiliste ti accusavano di essere una controrivoluzionaria”.

La scrittrice femminista siciliana decise quindi di trasferirsi in Messico, dove vive tuttora. È stata docente di filosofia nell’Universidad Autónoma de la Ciudad de México (UACM) e non ha mai smesso di scrivere: romanzi, poesie, saggi e racconti per bambini, per lo più in spagnolo.

Donna embera-chamí del Dipartimento di Risaralda, Colombia (Foto: Orsetta Bellani)

Nei quasi 40 anni in cui ha vissuto e viaggiato per l’America Latina, ha avuto la possibilità di conoscere molte donne indigene organizzate. Da quell’incontro è nato il suo libro Feminismos desde Abya Yala, che ha pubblicato nel 2012.

Dopo aver incontrato donne di 607 popoli indigeni affermi che esiste una relazione tra il femminismo e la ricerca del buen vivir. Secondo te tutte le donne che lottano per migliorare le loro condizioni si possono definire femministe? 
Senz’altro. “Femminismo” è una parola che condensa e che traduce; come tutte le traduzioni è riduttiva, ma ci può dare un’idea di ciò che è incontrarsi e riflettere tra donne per il benessere delle donne all’interno della loro stessa società. Definirsi femminista è tradurre un concetto molto più ampio, molto più complesso e molto più specifico di ogni lingua e cultura, di ogni gruppo di donne che si riunisce. Esistono donne indigene che usano vere e proprie metafore per definirsi: alcune si riconoscono come “le donne del cuore”, altre dicono “siamo le donne che lottano”, altre ancora dicono “siamo le donne che cercano una buena vita”. Ogni volta che la ricerca di questa buona vita parte dalla riflessione tra donne e per il benessere delle donne, io credo che si possa parlare di femminismo.

Allo stesso tempo sei molto critica nei confronti del femminismo accademico occidentale. Perché?
Il femminismo accademico occidentale è uno dei tanti modi in cui la “società della conoscenza” convoglia a proprio beneficio tutti i saperi che provengono dalla società. Il femminismo era una lotta proveniente da tutti i settori sociali, dalle donne riunite nelle loro cucine per cambiare il mondo, e l’Università si è appropriata di questa conoscenza, l’ha portata nelle aule, l’ha inserita in un sistema di specializzazione. Certo, il femminismo accademico occidentale ha anche degli aspetti positivi: esiste una filosofia critica che viene dal femminismo. Ma è stato portato nelle aule per depotenziarlo, per togliergli la sua forza politica.

Non è successo la stessa cosa al femminismo latinoamericano?
Una parte del femminismo in America Latina sta nelle aule. In Messico si prendono in grande considerazione teorie che non sono latinoamericane, è evidente quando nei programmi di studio non trovi Margarita Pisano, non trovi Julieta Kirkwood ma trovi Judith Butler. D’altra parte ci sono anche molti gruppi di incontro tra donne che stanno creando una giustizia propria che si distanzia da quello che il patriarcato impone alle donne, ad esempio la vergogna dopo lo stupro. Oggi le donne si uniscono per creare una giustizia che risolva il loro diritto alla vita e al benessere.

Donne zapatiste. Foto: Orsetta Bellani

Un femminismo in cui si riconoscono molte donne latinoamericane è il femminismo comunitario. Che cos’è?
È un modo di definire femminismi che sono nati all’interno delle comunità indigene di Bolivia e Guatemala e che oggi sono stati abbracciati da donne che fanno parte di comunità indigene, o da donne che sono arrivate dalle città a lavorare e vivere con loro. 
Secondo i femminismi comunitari, la colonizzazione dell’America è stata una colonizzazione di genere, che ha cambiato le relazioni tra donne e uomini stabilendo ciò che è femminile e ciò che è maschile, lasciando così fuori le donne mascoline, gli uomini femminili, le persone con una sessualità non riproduttiva e le donne che non vogliono stare in una relazione di coppia.
La colonizzazione ha imposto un sistema di genere di tipo binario: o sei donna o sei uomo; se sei donna ti occupi di certe cose, se sei uomo di altre. Presso molti popoli che vivevano in America prima dell’arrivo degli spagnoli questa condizione era più egualitaria, o differenziata ma con maggiori livelli comunicanti, e non necessariamente esisteva una differenza così marcata tra il pubblico e il privato.
Inoltre, secondo i femminismi comunitari, la cultura della comunità stessa mette le basi per vivere bene all’interno di quella comunità, dopodiché una donna si può aprire al mondo: prima di aprirci al mondo dobbiamo trovare la nostra storia di resistenza come donne e la nostra storia di “buona vita”, ora e come donne di questa comunità specifica, che ha bisogno di curarsi dal colonialismo e dal patriarcato cresciuto con il colonialismo. La colonizzazione ha imposto la dote e i matrimoni combinati, che prima non esistevano. 

Secondo il femminismo comunitario, l’incontro tra le culture americane e la cultura europea ha originato una forma originale di patriarcato. Come si definisce e che caratteristiche ha?
Si chiama “crocevia patriarcale” ed è una definizione sviluppata da due pensatrici che vivono in luoghi molto diversi. Una è un’indigena xinca guatemalteca che si chiama Lorena Cabnal, l’altra è un’indigena aymara della Bolivia che si chiama Julieta Paredes. Hanno lavorato sull’idea di maschilismo contemporaneo come frutto di un lungo processo storico che ha avuto un momento critico durante la colonizzazione americana, quando il patriarcato presente nelle comunità si rafforzò con il patriarcato cristiano colonialista. 
Il patriarcato latinoamericano è particolarmente violento perché nasce dal colonialismo, dal genocidio, ed è profondamente contrario ai popoli indigeni in cui le donne rappresentano il 50% della popolazione e sono la struttura portante dell’economia comunitaria. Questo è il “crocevia patriarcale”, è la radicalizzazione dei patriarcati originari causata dal contatto con il patriarcato coloniale, cristiano e assassino.

Articolo pubblicato su Arivista nel dicembre-gennaio 2019.

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