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Morire sulle barricate contro il “golpe elettorale”

Kimberly Dayana Fonseca è stata uccisa venerdì sera. Aveva diciannove anni. Era andata a cercare suo fratello in una delle barricate costruite dalla popolazione di Tegucigalpa, capitale dell’Honduras, per protestare contro quello che gran parte della popolazione considera un “golpe elettorale”. Lo voleva avvisare del fatto che, poco prima, il Ministro degli Interni aveva decretato l’inizio del coprifuoco per le undici di sera. Fu proprio a quell’ora che una pallottola sparata dalla Polizia Militare le si è conficcata nella testa.

Kimberly è una delle 14 vittime della repressione contro la popolazione honduregna che dalla settimana scorsa, dopo le elezioni presidenziali di domenica 26 novembre, manifesta nelle strade di tutto il paese urlando “Fuera JOH”, acronimo di Juan Orlando Hernández del conservatore Partido Nacional.

Orlando Hernández venne eletto presidente nel 2013, e anche le elezioni di allora furono in odore di brogli. Durante il suo mandato, il presidente è riuscito a far in modo che la Corte Suprema cambiasse la Costituzione per presentare la sua ricandidatura, e ha dovuto fare slalom tra le accuse piovute dal boss Leonel Rivera Maradiaga, che hanno portato gli inquirenti statunitensi ad affermare che la sua campagna elettorale è stata finanziata con denaro del narcotraffico.

Dopo le elezioni del 26 novembre, la situazione in uno dei paesi più pericolosi del mondo è ancora più caotica. Nei giorni scorsi, i poliziotti della Squadra di Operazioni Speciali COBRA hanno incrociato le braccia e dichiarato che non usciranno più in strada a reprimere la popolazione. Inoltre, i dubbi sulla trasparenza del processo elettorale sono stati sollevati anche da uno dei magistrati del Tribunal Supremo Electoral (TSE). Intervistato dal portale salvadoregno El Faro, il magistrato Marco Ramiro Lobo ha sottolineato come la tendenza durante il conteggio dei voti, che vedeva in vantaggio Salvador Nasralla dell’Alleanza d’Opposizione alla Dittatura, è cambiata dopo due black out del sistema; quando questo ha riiniziato a funzionare, in testa c’era Juan Orlando Hernández.

Entrambi i candidati si sono proclamati vincitori ma, a più di una settimana dalle elezioni, l’autorità ha dichiarato vittorioso Orlando Hernández, con un margine di circa 50 mila voti. Ora Nasralla e i suoi chiedono un riconteggio dei voti, o un ballottaggio tra i due candidati.

Intanto, le principali strade dell’Honduras sono bloccate da manifestanti che sfidano il coprifuoco ed intonano cori, battono pentole e bruciano copertoni. Con ogni probabilità molti di loro sono gli stessi che nel 2009 protestarono contro il colpo di Stato all’allora presidente Manuel Zelaya, eletto con i voti della destra e spostatosi poi verso posizioni progressiste, e che oggi fa parte dell’Alleanza d’Opposizione alla Dittatura.

Secondo Wikileaks, nel golpe del 2009 c’era lo zampino degli Stati Uniti, che storicamente hanno segnato le sorti di questo paese che è la Repubblica delle Banane per eccellenza. Da sempre il governo nordamericano ha scelto presidenti-fantoccio per permettere a imprese come Chiquita di esercitare un governo di fatto nei territori in cui operava.

Il colpo di Stato del 2009 venne promosso per garantire la continuità al governo dell’oligarchia honduregna, dei cui interessi Orlando Hernández è portatore; un gruppo di persone che possiede il 40% della ricchezza del paese, concentrata soprattutto nell’industria maquiladorae nelle coltivazioni intensive di prodotti da esportazione, come la palma africana. “In Honduras sono dieci le famiglie che prendono le decisioni. Controllano industrie, banche, media, giustizia e governo”, spiega Miriam Miranda, dell’organizzazione per la difesa dei diritti del popolo afrodiscendente OFRANEH.

I padroni dell’Honduras hanno cognomi mediorientali: Facussé, Canahuati, Kafie, e finanziano il sistema che dal 1902 garantisce l’alternanza tra il Partido Liberal e il Partido Nacional. L’alternanza che l’Alleanza d’Opposizione sta cercando di interrompere.

Articolo pubblicato da Il Fatto Quotidiano il 8.12.2017.

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