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Colombia, tra gli indigeni che lottano per liberare la terra

Armando guida la sua moto in una strada non asfaltata, schivando le buche e le mucche che sostano ai bordi. “Qui una volta era tutto coltivato con canne da zucchero, tutto”, dice indicando, con un gesto veloce per non perdere l’equilibrio, i terreni che ci circondano, dove oggi cresce una vegetazione spontanea.

Il contadino fa parte del Consejo Regional Indígena del Cauca (CRIC), un’organizzazione nata nel 1971 e formata da indigeni di dieci etnie, soprattutto nasa. Con un machete infilato nella cintura, si fa strada con la sua moto tra i sentieri che tagliano la campagna intorno alla città di Corinto, nel dipartimento colombiano del Cauca, per unirsi a una Minga de Liberación de la Madre Tierra.

“Minga” è la parola che i nasa utilizzano per nominare il lavoro collettivo, il momento in cui la comunità si riunisce per impegnarsi in un progetto a beneficio di tutti. Durante le Mingas de Liberación de la Madre Tierra gli indigeni del Cauca entrano nei latifondi dei zuccherifici e con i loro machetes abbattono le canne, riappropriandosi delle terre che gli sono state tolte nel XVI secolo dai conquistadores spagnoli. Per questo in America Latina gli indigeni non parlano di occupare le terre ma di recuperarle, e gli indigeni nasa si sono spinti più in là, creando il concetto di “liberazione”.

Liberatrice della Madre Tierra. Foto: Orsetta Bellani

“Si parla di liberare la Madre Terra perché con la nostra azione la stiamo liberando da tanta contaminazione, da tanti chimici, da tanti maltrattamenti”, spiega una “liberatrice della Madre Terra” che chiameremo Carmela, visto che per motivi di sicurezza preferisce non divulgare il suo vero nome.

A partire dal XVI secolo, i coloni spagnoli hanno spinto gli indigeni del Cauca dalle pianure più fertili alle montagne, dove hanno costruito i loro villaggi. Nel corso dei decenni la popolazione si è moltiplicata, e per i giovani non è rimasta terra da coltivare. “Di terra ce n’è, però l’hanno occupata le grandi imprese”, afferma un anziano nasa ex governatore di Pioyá, nel nord del Cauca.

Nella regione circa 250 mila ettari sono seminati con canna da zucchero finalizzata alla produzione di agrocombustibili. Il CRIC ha già liberato sedici fattorie che appartengono a grandi zuccherifici come INCAUCA, dell’industriale colombiano Carlos Ardila Lülle, che è proprietario anche di altre grandi imprese come il canale televisivo RCN; o come l’impresa Mayagüez degli Holgüin, famiglia che possiede anche San Carlos, zuccherificio che è stato condannato a causa delle relazioni che intrattiene con i gruppi paramilitari.

“Queste monocoltivazioni di canna da zucchero sono un bene collettivo, le vogliamo utilizzare per coltivare cibo per le nostre famiglie. Però sappiamo che dopo tanti anni di chimici e veleni, la terra ha bisogno di riposare prima di essere nuovamente seminata”, afferma Carmela. Non sarà semplice farlo: quando i “liberatori” hanno seminato mais nei primi settanta ettari di terra liberata, è arrivato un aereo a fumicare le coltivazioni. Quando hanno piantato banani, la polizia li ha abbattuti.

Carmela vive con i suoi figli e altre dieci famiglie del CRIC all’interno di cambuches, delle abitazioni costruite con pali e teli di nylon ai margini di un fiume che attraversa un terreno “liberato”. Lì si riunisce con i suoi compagni prima di andare ad abbattere le canne da zucchero dei grandi latifondisti. Si incontrano di mattino presto, ma il sole batte già forte sulla campagna di Corinto, una delle zone più colpite dalla guerra che durante cinquantatré anni ha opposto l’esercito alle Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (FARC).

Carmela prepara la colazione per tutti prima di andare a “liberare la Madre Terra”: sistema i ciocchi per preparare il fuoco, prende delle banane dal casco che pende da un gancio, le taglia a rotelle e le frigge. Dopo la colazione, s’incammina con i suoi compagni per i sentieri che rompono i cañaverales. Poi si sparpagliano per la campagna e tagliano la canna da zucchero con i loro machetes, che rimbalzano nel suo tronco duro. Pianta dopo pianta, facendosi spazio fra le canne già abbattute, muovendo i loro passi sulla terra dura dei cañaverales. Quando hanno finito, bruciano i tronchi che giacciono sui terreni liberati.

In una pausa dal lavoro, Carmela racconta di essere parente di Daniel Felipe Castro Basto, un diciottenne ucciso il 9 maggio dall’Escuadrón Móvil Anti Disturbios (ESMAD) – un corpo speciale della polizia colombiana-, durante una Minga de Liberación de la Madre Tierra.

“Dall’inizio del Processo di Liberazione della Madre Terra, il governo nazionale ha ucciso tre indigeni e gli attacchi hanno causato più di 250 feriti, fatti che non sono imputabili solo agli agenti dell’ESMAD, ma anche ad agenti di sicurezza privata del zuccherificio e a gruppi armati illegali”, denuncia il CRIC in un comunicato.

A causa della repressione delle autorità e delle guardie delle imprese, le mingas sono sempre accompagnate dalla Guardia Indigena. “Già ai tempi dell’occupazione europea esistevano guardie indigene contro la persecuzione degli spagnoli, anche se allora non venivano chiamate in questo modo”, spiega Gilberto Cuetia. L’uomo porta con sé un bastone di comando da cui pendono dei nastri verdi e rossi, i colori del CRIC, e fa parte della Guardia Indigena da quando è stata fondata. “La Guardia Indigena è stata creata nel 2001 a Caloto (nord del Cauca), perché i gruppi paramilitari e le autorità uccidevano molti dei nostri leaders. È stata creata con tre finalità: accompagnare le assemblee, le azioni e proteggere i nostri leaders. Non abbiamo armi, solo bastoni e pietre per affrontare l’ESMAD”.

Entrata del Resguardo Indígena de Pioyá, nel nord del Cauca. Foto: Orsetta Bellani

Il CRIC promuove azioni di recuperazione di terre dal giorno della sua nascita, quarantasei anni fa. Secondo Vilma Rocío Almendra Quiguanás, nasa misak e integrante del collettivo Pueblos en Camino, queste si arrestarono nel 1991. “È successo essenzialmente per due motivi. Innanzitutto, nel 1991 venne approvata una nuova Costituzione che per la prima volta ha riconosciuto i diritti dei popoli indigeni. Sicuramente da una parte è stata una vittoria, ma allo stesso tempo ha frammentato la lotta sociale: il governo ha iniziato a mandare denaro per le comunità indigene, e le strutture del CRIC e di ACIN (Asociación de Cabildos Indígenas del Norte del Cauca, una delle nove organizzazioni che conformano il CRIC) hanno iniziato a dedicarsi più a gestire i soldi che a lottare per la terra. E negli ultimi anni, con l’avvio dei negoziati di pace tra il governo e le FARC, i dirigenti più in vista del CRIC sono stati molto vicini al presidente di Juan Manuel Santos, con la speranza di ricevere in cambio una parte del denaro che sta arrivando in Colombia per finanziare il post conflitto”, spiega l’attivista. “Il secondo fatto che ha frenato le recuperazioni di terra è stato il massacro de El Nilo, nel dicembre del 1991, solo sei mesi dopo l’approvazione della nuova Costituzione. In quell’occasione durante una recuperazione di una fattoria sono stati uccisi venti indigeni, e la gente si è spaventata molto”.

A partire dal 2004, all’interno del CRIC sono stati creati degli spazi di formazione politica in cui i partecipanti dibattevano sulle dinamiche di spoliazione proprie del capitalismo non solo nel Cauca, ma anche in altre regioni della Colombia e del continente. Da allora i nasa passarono nuovamente all’azione per protestare contro le inadempienze del governo, che ha firmato con loro più di 1282 accordi di restituzione di terra che non sono mai stati rispettati.

“Dal 2004 la gente ha iniziato a riflettere sul fatto che non è sufficiente recuperare la terra, che toglierla al padrone per continuare a coltivare canna da zucchero in monocoltivazioni equivale a continuare ad ucciderla. Fu allora che s’iniziò a discutere della necessità di liberare la Madre Terra”, spiega Vilma Almendra. “Oggi i liberatori e le liberatrici si stanno opponendo al sistema capitalista ed estrattivista. Si battono contro l’industriale Ardila Lülle e si stanno battendo anche contro l’autoritarismo interno al CRIC”.

Articolo pubblicato su Altreconomia nell’ottobre 2017.

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