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Sospese alla frontiera

Ho conosciuto Myrna all’inizio di aprile, durante la Carovana per la Pace, la Giustizia e la Dignità, un’iniziativa di un gruppo di attivisti che hanno percorso –quasi completamente in autobus- i più di 5700 km che separano l’Honduras da New York. Lo scopo era chiedere all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di mettere fine alla guerra contro le droghe, che in Messico e Centroamerica ha portato ad un incremento della violenza e delle migrazioni forzate.

Seduta al mio fianco in autobus, durante un viaggio interminabile attraverso il territorio messicano, Myrna mi ha raccontato di avere lasciato nel 1998 lo Stato di Puebla, nel centro del Messico, per migrare negli Stati Uniti. Aveva 20 anni, suo padre era morto da poco e doveva aiutare la madre a mantenere i tre fratelli minori.

Myrna decise allora di viaggiare fino a New York, dove aveva qualche contatto. Non fu facile inserirsi nella metropoli, ma alla fine la vita le è venuta incontro: ha trovato lavoro come baby sitter, poi come cuoca in un ristorante messicano. I titolari la trattavano bene e riusciva a mandare rimesse a sua madre. S’innamorò di un ragazzo, anche lui messicano, ed ebbero due figlie: Heidy e Michel, che oggi hanno quindici e otto anni.

La vita scorreva tranquilla, ma a Myrna mancavano la madre e i fratelli. Dopo 15 anni negli Stati Uniti, decise di andare a trovarli con la sua famiglia. In quel momento prese in considerazione la possibilità di trasferirsi nuovamente in Messico, ma temeva per la sicurezza delle sue bambine. “La violenza, i femminicidi”, dice Myrna. “Qui se sanno che vieni dagli Stati Uniti, che hai dei dollari, sei facile preda dei sequestri. E poi le mie figlie sono di New York, hanno la loro vita là”, afferma la donna.

L’incontro tra Myrna e le figlie a Monterrey, Messico (Foto: O.B.)

Terminata la visita a casa della nonna, Heidy e Michel ritornarono a New York in aereo con il marito di Myrna, mentre a lei, che non aveva documenti per entrare regolarmente negli Stati Uniti, toccò viaggiare via terra e clandestinamente, come aveva fatto la prima volta. De mojada, come si dice in Messico, espressione che letteralmente significa “da bagnata”, e che si riferisce al fatto che per raggiungere gli Stati Uniti i migranti sono costretti a guadare un fiume, il Rio Bravo. Ma Myrna decise di attraversare la frontiera tra lo Stato di Sonora e l’Arizona, dove c’è solo deserto, terra arida e calore. Aveva fretta di arrivare a New York. “Di lì a poco Michel avrebbe compiuto sei anni e le avevo promesso che avremmo tagliato insieme la sua torta di compleanno”, ricorda Myrna.

Durante il suo viaggio solitario nel deserto dell’Arizona, Myrna venne intercettata dalla Border Patrol e spedita al centro di detenzione per migranti di Tucson. “Il tuo unico diritto è andartene dal mio paese”, le disse una donna che lavorava in quel carcere per migranti, dove Myrna venne obbligata a stare un mese. Myrna ricorda il razzismo delle guardie, il freddo costante che si pativa all’interno del centro di detenzione: “lo facevano apposta a tenere la temperatura così bassa, per farci impazzire”, dice.

Venne poi deportata in Messico, con le mani e i piedi ammanettati, come se fosse una criminale, e con l’ordine di non mettere più piede negli Stati Uniti per dieci anni. Mentre il marito e le figlie, di nazionalità statunitense, si trovavano a New York.

Myrna nella città di Oaxaca, Messico (Foto: O.B.)

Malgrado la tristezza e le lacrime che le attraversavano il viso mentre mi raccontava la sua storia, Myrna ritrovò forza quando iniziò a parlare del lavoro di difesa dei diritti umani che svolge all’interno della organizzazione non governativa Asamblea Popular Familias Migrantes (APOFAM). “Tutta questa frustrazione ora si converte in lotta. So che posso apportare qualcosa alla mia comunità e agli altri bambini che sono rimasti senza genitori a causa delle deportazioni. Una madre non si stanca mai di lottare per stare con le sue figlie”, mi disse, ricordando che fino al 2012 sono circa 200mila le famiglie separate dalle leggi migratorie degli Stati Uniti.

Spesso Myrna pensò di invitare le sue figlie a vivere con lei in Messico, però sapeva che la vita delle bambine era a New York, al sicuro dal contesto di violenza e insicurezza che sarebbe loro toccato vivere a Puebla.

Angélica non ce l’ha fatta

Le leggi migratorie statunitensi sono la barriera che obbliga i genitori deportati a vivere lontani dai loro figli, mentre l’insicurezza che si vive in Messico è la condizione che impedisce ai bambini di raggiungere i propri famigliari.

Angélica María Díaz che come Myrna è un’attivista di Apofam e ha partecipato alla Carovana per la Pace, la Giustizia e la Dignità, ha partorito la sua prima figlia negli Stati Uniti, dove è entrata senza documenti, nascosta nel portapacchi dell’automobile del marito. Era il 1995 e dopo sei mesi in Nord America si trasferì con suo marito a Tacupa, un paese nello Stato messicano di Michoacán, dove ha avuto un’altra bambina.

“Tutto andava bene, poi improvvisamente iniziò ad arrivare gente armata”, racconta Angélica. “Mia figlia maggiore, quando aveva quattordici anni, veniva minacciata da persone che la volevano obbligare a portare droga a delle case isolate, dove c’erano persone armate. Avevamo molta paura e non sapevamo cosa fare”:

Fu di fronte alla paura che Angélica e il marito maturarono la decisione di mandare la figlia negli States, visto il suo passaporto nord americano. Oggi vive negli Usa con la sorella minore che, nel frattempo l’ha raggiunta. E studia Medicina.

Malgrado il dolore che le causa vivere lontana dalle figlie, Angelica preferisce non tornino in Messico a causa della violenza che si vive nella regione chiamata Tierra Caliente, nello Stato di Guerrero, dove la donna è stata costretta a tornare per prendersi cura della madre.

Myrna nella sua casa di New York (Foto: O.B.)

Il lieto fine

Quando la Carovana è arrivata alla frontiera tra il Messico e il Texas, Myrna sembrava nervosa e preoccupata. Aveva già abbracciato le sue figlie a Monterrey, una città messicana che si trova a un paio d’ore dalla frontiera. Dopo tre anni senza vederle si trovavano lì, al suo fianco, nel giorno più difficile, quello in cui avrebbe attraversato la frontiera per consegnarsi alle autorità statunitensi.

Nella città di Nuevo Laredo, all’entrata del ponte che conduce in Texas, davanti agli uffici dove si sbrigano le pratiche migratorie per entrare negli Stati Uniti, Myrna mostrò un cartello che diceva “le mie figlie sentono la mia mancanza e non sono colpevoli del fatto che io sia una migrante”. Iniziò a camminare, con le figlie a braccetto, gli attivisti della carovana dietro di lei e i media che seguivano ogni suo passo. Quando raggiunse la linea che segnala l’inizio del territorio statunitense, Myrna si consegnò alle autorità e presentò la sua richiesta di asilo politico.

Gli attivisti che accompagnavano il caso di Myrna si aspettavano che sarebbe stata trattenuta alla frontiera un paio di settimane, e da lì trasferita a un centro di detenzione per migranti. “Normalmente questo è il procedimento, a volte ancora più crudele, perché la persona viene isolata completamente dalla sua comunità e, spesso, per giorni o settimane non si sa neanche dove si trova”, spiega Juan Carlos Ruiz, sacerdote della Chiesa di Sion di New York e difensore dei diritti dei migranti, che ha accompagnato il caso di Myrna.

Non appena gli attivisti della Carovana per la Pace, la Giustizia e la Dignità terminarono le pratiche burocratiche alla frontiera, arrivò la notizia sorprendente: da lì a poche ora, Myrna sarebbe stata liberata. Le sue figlie si abbracciarono e piansero, questa volta di felicità.

“A Myrna è stato concesso uno status condizionale per un anno, per darle il tempo di presentare i documenti necessari a richiedere di vivere negli Stati Uniti in modo permanente”, spiega Juan Carlos Ruiz. “Lo scenario per noi è ottimistico, visto che ci sembra evidente che la violenza e l’impunità che si vivono in Messico non sono un contesto appropriato per una famiglia che rispetta le condizioni necessarie per vivere permanentemente negli Stati Uniti”.

Ora, seduta nella sua casa di New York, Myrna mi stringe forte la mano e mi sorride. “Ti saresti mai aspettata di vedermi qui?”, mi chiede. “No, davvero, non me lo aspettavo”, le rispondo.

Mi racconta l’ultima parte della sua storia. Arrivata alla stazione migratoria della frontiera tra Messico e Texas, un funzionario la infastidiva facendo commenti razzisti. “Ai messicani non diamo asilo politico. Se varchi la porta ti arrestiamo”, le disse.

Ma poi un altro le chiese se aveva intenzione di andare fino a New York. “Speravo di arrivarci con la carovana”, rispose Myrna, che si sorprese quando quello le rispose: “Sì, lei andrà a New York”.

Articolo pubblicato nel numero di luglio di Narcomafie.

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