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San Cristóbal de Las Casas: la “città vampiro” e l’insurrezione armata zapatista

A San Cristóbal, fuori dall’orizzonte di nubi e montagne

che adornano ogni strada, nulla è stato regalato,

tutto è stato conquistato. 

Andrés Aubry

L’ora migliore per guardare San Cristóbal de Las Casas sono le sei del pomeriggio. Il sole scende lentamente dietro il vulcano Huitepec e colora di viola le nuvole basse. Le indigene, per lo più maya tzotziles, stendono il loro artigianato di fronte alla cattedrale gialla che l’illuminazione notturna fa sembrare di zucchero, mentre nelle strade del centro la gente si riversa nei bar e nei ristoranti italiani, argentini, libanesi. 

San Cristóbal è una città turistica. I turisti, che non si muovono dalle strade principali, pensano sia solo una cittadina, quando in realtà ha circa 190mila abitanti. Viviamo tra le grandi case del centro laccato – di tegole e fango intonacato dai colori accesi, con i ricchi cortili abbelliti da alberi e piante tropicali -, i barrios costruiti dagli spagnoli per confinare gli indigeni e la più recente periferia. Quartieri come La Hormiga, eretto abusivamente negli anni ‘80 dai maya di San Juan Chamula espulsi dalla violenza religiosa.

San Cristóbal è una città povera e aspra, con un passato difficile. Quando nel 1528 il conquistador Diego de Mazariegos la fondò, credeva di trovarsi in Giappone e ancora non sapeva che più a sud ci fosse tutto un continente, il Chiapas era considerato un finis terrae. Nella storia di San Cristóbal abbondano i terremoti, le inondazioni, le epidemie e le ingiustizie. Era, ed è tuttora, una “città duale”, che riflette nella sua urbanistica la divisione sociale tra la classe dirigente ladina e il proletariato indigeno.

San Cristóbal è fredda e umida, circondata da pantani e da montagne di boschi verdi. Il sole brucia le giornate della sua valle, a più di 2mila metri sul livello del mare, ma quando tramonta il freddo intirizzisce le ossa. I pomeriggi estivi sono innaffiati da acquazzoni che ricorrono come una costante intorno alle 2 del pomeriggio; prima di arrivare in Messico, non avevo mai pensato che la pioggia potesse avere un orario.

Cattedrale di San Cristóbal de Las Casas. Foto: O.B.

A causa della sua “alta” posizione – preferita dagli invasori spagnoli visto il caldo soffocante delle terre ai suoi piedi – San Cristóbal non è mai diventata un centro agricolo importante, e a partire dal XIX secolo la sua principale attività economica è stata il reclutamento di braccianti indigeni per le terre basse chiapaneche.

Seconda città più antica d’America e capitale dello Stato del Chiapas durante più di tre secoli, San Cristóbal è stata dimenticata dai presidenti che si sono succeduti a partire dal 1824, quando da territorio guatemalteco diventò messicano. Il primo che da Città del Messico si spinse fino alla sierra chiapaneca fu, nel 1940, Lázaro Cárdenas, che intraprese un viaggio che durò vari giorni per raggiungere l’isolata San Cristóbal, fino agli anni cinquanta unita al resto del paese da una sola strada asfaltata.

Sfruttamento e sangue dei nativi
A partire dagli anni ’70, a causa della crisi del settore agricolo e delle tensioni che si crearono nelle campagne tra protestanti e cattolici, la migrazione indigena alla bella città coloniale, che era fondamentalmente e orgogliosamente meticcia, divenne sempre più massiva. L’integrazione è stata lenta e incompleta, dovuta al razzismo dei coletos (come vengono chiamati volgarmente i sancristobalensi) e alle difficoltà, per gli indigeni, di adattarsi al contesto urbano. Ancora oggi molti nativi continuano a essere legati ai modi rurali, e non è difficile incontrare donne che pascolano pecore alle porte del centro storico.

Con il suo centro “perfetto”, San Cristóbal è oggi lo specchio dei contrasti del Chiapas, che presenta una facciata turistica da cartolina e un dietro le quinte di violenza ed emarginazione, soprattutto nei confronti degli indigeni.
“San Cristóbal è chiamata “città vampiro”, perché vive del sangue e dello sfruttamento dei nativi. Prima dell’insurrezione zapatista, nel loro discorso i coletos esprimevano in modo esplicito il razzismo nei confronti degli indigeni”, ricorda Juan Blasco, professore della Unach (Universidad Autónoma de Chiapas). “Dopo l’insurrezione zapatista, i giornali criticarono i sancristobalensi per aver maltrattato gli indigeni durante secoli, e da allora il loro atteggiamento è cambiato, almeno nel discorso”.

Indigeni maya tzotziles caricano sulle spalle una sedia adibita al trasporto umano. Foto: Juan Guzmán

Non è certo un caso se in Chiapas c’è stato un levantamiento armato indigeno. Fino al 1952, anno in cui apparve l’Instituto Nacional Indigenista (INI), la discriminazione a San Cristóbal era stabilita per legge. Ai nativi era proibito camminare nella piazza principale, andare per strada di notte e dovevano scendere dal marciapiede se s’imbattevano in un ladino. Dopo il 1952 il razzismo ha continuato ad esistere come pratica consuetudinaria e nel mio quartiere, costruito all’epoca della Colonia come ghetto per gli indigeni, fino al 1985 non c’erano asfalto né fognature.

Intanto, a metà degli anni ’80 San Cristóbal si trasformò in una meta turistica, ai tempi riservata solo a viaggiatori freakettoni. Tempo fa, quando lavoravo come volontaria nel centro di ricerche CIEPAC (Centro de Investigaciones Económicas y Políticas de Acción Comunitaria), incontrammo un documento in cui il governo dello Stato del Chiapas, pur preoccupato per il subbuglio causato dagli zapatisti, si diceva convinto che la loro insurrezione (1994) avesse favorito il turismo.

Li chiamiamo zapaturisti e sono persone che vengono da tutto il mondo per appoggiare il movimento e per imparare, conoscere e diffondere nel loro paese la propria esperienza. Mossi da nobili intenti e spesso e volentieri piuttosto “spiantati”, gli zapaturisti rappresentano una bella opportunità per i piccoli albergatori, ristoratori e per chi vende artigianato.

Un altro fenomeno curioso causato dall’insurrezione zapatista a San Cristóbal è stato l’arrivo in pianta stabile di attivisti politici di vario ordine e grado, provenienti dall’estero o da altre città del Messico. Integrarsi nella città coleta non è facile, visto l’abisso culturale che ci separa dai tzotziles e la diffidenza dei meticci, proprio a causa del nostro appoggio alla causa indigena. Il rischio che si corre è trovarsi in una nicchia sociale di “salvatori del mondo”.

Il trattato di libero commercio
È comune sentir parlare del collasso della civiltà maya, come se si trattasse di un’etnia scomparsa dalla faccia della terra. In realtà, malgrado siano tramontati i regni di Palenque, Toniná e Chichén-Itzá, la realtà comunitaria indigena, figlia dei figli degli abitanti di quelle ricche città, è viva e vegeta.

Oggi i maya, che rappresentano circa il 30% della popolazione chiapaneca, sono gli abitanti più poveri dello stato che ha il minor indice di sviluppo umano del Messico e in cui, nel 2012, la povertà interessava ancora il 74,7% della popolazione. Prima del ’94, la situazione era ancora più grave: il 50% delle case nei municipi di Ocosingo, Comitán e Las Margaritas avevano il pavimento in terra battuta, il 65% non godeva dell’allacciamento all’acqua corrente e il 70% all’elettricità.

All’inizio degli anni ’90, il governo neoliberista di Carlos Salinas de Gortari prese due provvedimenti che misero in allarme l’agro messicano: la riforma dell’art. 27 della Costituzione, che interruppe la riforma agraria e la distribuzione delle terre, privatizzando gli ejidos (terre collettive), e la firma del Trattato di Libero Commercio (TLC) con il Canada e gli Stati Uniti (North American Free Trade Agreement – NAFTA).

Dal primo gennaio 1994, quando il NAFTA entrò in vigore, i prodotti agricoli messicani si trovarono a dover competere con quelli dei vicini del nord, e già allora c’era chi prevedeva la catastrofe che, a vent’anni di distanza, è davanti ai nostri occhi. I sussidi che il governo statunitense e quello canadese offrono all’agricoltura rendono i loro prodotti più economici sul mercato messicano rispetto a quelli locali, con il risultato che le importazioni di mais – alimento base della cucina messicana e che trova la sua origine proprio in questa parte del mondo – tra il 1992 e il 2008 sono aumentate di quasi cinque volte. I piccoli contadini messicani, la cui produzione è incentrata soprattutto sul granoturco, si sono trovati a non poterlo più vendere nei mercati locali. Il NAFTA ha creato una crisi economica e umanitaria: dalla sua entrata in vigore il paese ha perso 4,9 milioni di posti di lavoro nell’agricoltura familiare, e 6 milioni di persone hanno dovuto abbandonare la campagna.

All’alba del primo gennaio 1994, giorno dell’entrata in vigore del NAFTA, il Chiapas fu l’epicentro di un terremoto. Centinaia di indigeni maya armati e con i volti coperti da passamontagna occuparono San Cristóbal e altri quattro centri urbani chiapanechi. Dal palazzo municipale della città lessero la Prima Dichiarazione della Selva Lacandona: “A loro non importa che stiamo morendo di fama e malattie curabili, che non abbiamo nulla, assolutamente nulla, né un tetto degno, né terra, lavoro, salute, alimentazione, educazione, non abbiamo diritto a eleggere liberamente e democraticamente le nostre autorità, né pace e giustizia per noi e per i nostri figli. Ma oggi diciamo basta! Pertanto, conformemente a questa dichiarazione di guerra, diamo alle forze militari dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale l’ordine di avanzare verso la capitale del paese, vincendo l’esercito federale messicano”.

Zapatisti del Caracol della Garrucha. Foto: O.B.

La dichiarazione di guerra di quei primi giorni del 1994 spaventò molti. “La mattina del 1° gennaio accesi la radio e scoprii che tutti i networks locali erano stati occupati dagli zapatisti”, racconta il professor Juan Blasco. “Viste le esperienze delle guerre brutali in Centroamerica degli anni ’80 e ’90, quando ascoltai la Prima Dichiarazione della Selva Lacandona mi spaventai. In seguito si scoprì che gli zapatisti usavano le armi per richiamare l’attenzione, ma la loro lotta abbandonò presto il piano militare. Quella mattina, dopo aver ascoltato la radio, andai in centro perché ero curioso di sapere cosa stava succedendo. Quando arrivai davanti al palazzo municipale c’erano dei guerriglieri con i volti coperti da passamontagna che presidiavano la piazza armati, ma in nessun momento pensai che mi avrebbero potuto fare del male”.

“Scusate il disturbo, è una rivoluzione”
Alcuni turisti si avvicinarono a un uomo incappucciato e alto, dall’aspetto meticcio, mentre rilasciava dichiarazioni alla stampa sotto il porticato del municipio. La loro guida, nervosa, si lamentò perché doveva accompagnare il gruppo al sito archeologico di Palenque. “La strada per Palenque è chiusa”, rispose l’uomo. “Abbiamo occupato la città di Ocosingo. Scusate il disturbo, ma questa è una rivoluzione”.

Era il subcomandante Marcos che, secondo l’ex presidente Ernesto Zedillo, si chiama Rafael Sebastián Guillén Vicente ed è nato a Tampico nel 1957. Marcos arrivò nella Lacandona a seguito di un gruppo di sei meticci giunti dal centro del Messico il 17 novembre 1983, con l’intenzione di organizzare un gruppo armato rivoluzionario in Chiapas. Appartenevano al FLN (Fuerzas de Liberación Nacional), e scelsero la Lacandona non a seguito di una prudente valutazione politica, ma solo perché avevano dei contatti nella zona.

Ad ogni modo la scelta, benché casuale, fu senz’altro felice. I maya chiapanechi, normalmente considerati un popolo mansueto, hanno in realtà scatenato numerose ribellioni già ai tempi dell’occupazione spagnola. Nell’aprile 1712, nel paese di San Juan Cancuc, alla giovane maya tzeltal Maria de la Candelaria apparve una vergine che prometteva di aiutare gli indigeni. L’apparizione miracolosa, che non a caso coincise con l’aumento della decima e la visita del maligno vescovo Juan Bautista Alvarez de Toledo, portò a un’insurrezione degli indigeni di tutta la zona contro l’esercito di Ciudad Real in nome della vergine, che si concluse solo nel novembre dello stesso anno. Anche la ribellione contro la corona spagnola del paese tzotzil di San Juan Chamula (1869) ebbe origine “divina”. A seguito del ritrovamento, da parte dell’indigena Agustina Gómez Checheb, di tre pietre “scese dal cielo”, venne creata una nuova religione e detenuto a San Cristóbal il suo predicatore, Pedro Díaz Cuscate. Al comando di migliaia di tzotziles armati – a cui aveva assicurato che i morti durante la guerra sarebbero resuscitati dopo tre giorni -, il meticcio Ignacio Fernández de Galindo attaccò a più riprese la città chiapaneca per liberare il leader religioso. Più recentemente (1974) i tzotziles di Venustiano Carranza e San Andrés Larrainzar si ribellarono contro i possidenti locali, che si comportavano come signori feudali e che repressero duramente l’iniziativa dei maya.

Ad ogni modo, è solo con la ribellione dell’EZLN che la questione indigena entrò nell’agenda politica del Messico. Gli indigeni del Chiapas, i più poveri dello stato più povero del paese, salirono alle cronache internazionali. La guerra “regolare”, presto sostituita dal paramilitarismo, durò dodici giorni e si concluse a seguito di una manifestazione che riempì la piazza principale di Città del Messico, e che chiedeva al governo di Salinas de Gortari di decretare il cessate il fuoco e aprire il tavolo dei negoziati.

Mural nel Caracol di Oventic. Foto: O.B.

I guerriglieri si ritirarono in montagna e iniziò il processo di costruzione dell’autonomia zapatista che, secondo molti analisti, rappresenta oggi un esempio pratico dell’“altro mondo possibile”. Secondo l’intellettuale messicano Gustavo Esteva:

“Il mondo nuovo esiste nella zona zapatista, lo possiamo prendere come orizzonte per duplicarne l’esperienza. Non esiste un modo di ripeterla nel centro di Città del Messico o nella Sierra Norte dello Stato di Oaxaca, ma la possiamo utilizzare come inspirazione, è un esempio da condividere per parlare del mondo nuovo. Dobbiamo fare in modo, come gli zapatisti, che la nostra lotta abbia la forma del risultato. Quando evitiamo di separare i mezzi dai fini, il nostro modo di lottare è già il risultato della lotta. In questo processo l’amicizia ha un ruolo centrale, è lei a guidare i passi di chi sta costruendo il mondo nuovo”.

La rivoluzione neozapatista ha aperto la strada alle proteste anticapitaliste di Seattle (1999) e al primo Social Forum di Porto Alegre (2001), che hanno messo le basi per la nascita di movimenti sociali con respiro internazionale come quello No Global e quello degli Indignados.

Gli zapatisti hanno inoltre risvegliato un senso di orgoglio pan-indigeno, per aver dimostrato che una forza militare nativa può confrontarsi con il governo, l’esercito e i ladinos. Dopo il 1994, molte nazioni indigene del continente americano sono diventate attrici centrali nella vita politica dei loro paesi, e il Chiapas non è più un luogo dimenticato e finis terrae della conquista coloniale.

Organizzazioni flessibili e democratiche
L’arrivo di Marcos e dei suoi compagni del FLN non rappresentò l’unica miccia che causò l’esplosione neo-zapatista. A partire dagli anni ’50, il governo messicano promosse la colonizzazione della selva Lacandona: invece di ripartire, come prevedeva la riforma agraria, le terre dei latifondi ai contadini privi di terra, il governo li spingeva a disboscare e occupare quella vergine e sconosciuta porzione di Chiapas. Nel 1972, il presidente Luis Echeverría fece una mossa che si rivelò controproducente, promulgando il cosiddetto Decreto della Comunità Lacandona, con cui assegnava più di 600mila ettari di terra a 66 famiglie indigene lacandone – che godevano di un rapporto privilegiato con il governo -, ignorando i diritti su quella terra di più di trenta villaggi indigeni di altre etnie.

Le nuove comunità sorte nella Lacandona erano organizzazioni flessibili e democratiche, propense a prendere decisioni in assemblea. Negli anni ’70, i villaggi che erano stati danneggiati dal Decreto della Comunità Lacandona crearono organizzazioni di autodifesa contadina di ispirazione maoista, e si moltiplicarono poi le associazioni indigene per la difesa dei diritti dei coloni della selva. Tra queste la ANCIEZ (Alianza Nacional Campesina Indígena Emiliano Zapata), organizzazione radicale che il 12 ottobre 1992 – anniversario dell’arrivo di Colombo in America e dell’inizio della sua conquista – organizzò una marcia di 10mila indigeni per manifestare contro i 500 anni di oppressione coloniale. La marcia, che attraversò le vie di San Cristóbal in assetto quasi militare, è stata poi considerata come la prima uscita pubblica dell’EZLN, che da più di dieci anni preparava l’insurrezione travestita da ANCIEZ.

A partire dagli anni ’80, i fondatori dell’EZLN andavano per le comunità della Lacandona in cerca di persone che servissero come basi d’appoggio per la guerriglia: famiglie che sposassero la loro causa, li sfamassero e che li accogliessero nelle loro case con discrezione, salvaguardando la clandestinità dei guerriglieri. Gli zapatisti parlavano di terra per i contadini e di giustizia sociale, e sempre più persone si univano a loro; chi come basi d’appoggio, chi come guerriglieri e guerrigliere.

Municipi del Chiapas con presenza zapatista. Fonte: CIEPAC

Un anonimo miliziano zapatista ricordò l’origine dell’idea della lotta armata alla giornalista catalana Guiomar Rovira, che incontrò l’indomani dell’insurrezione del ’94:

“Abbiamo iniziato a vedere che ci dovevamo preparare in un altro modo perché ci ascoltassero, perché soddi- sfassero le nostre necessità, per denunciare quello che è successo durante molti anni, lo sfruttamento in cui viviamo. Però nessuno capiva come poteva essere l’altro modo. Alcuni dicevano: un’organizzazione armata. Così venne fuori l’idea, con una risata”.

La cattedrale piena di anarchici e rivoluzionari
Un altro elemento che, involontariamente, ha creato le basi per l’insurrezione zapatista, è stata la predicazione di don Samuel Ruiz García. Nel 1960 il sacerdote fu ordinato vescovo della diocesi che nel XVI secolo era di Bartolomé de Las Casas, il frate “amico degli indigeni” che diede il nome alla città in cui operava.

Per commemorare i cinquecento anni dalla nascita di Bartolomé de Las Casas, Samuel Ruiz fu chiamato a organizzare il Congresso Indigeno, che si tenne il 13 ottobre 1974 a San Cristóbal e vide la partecipazione di circa 1400 persone. Per la prima volta, rappresentanti dei popoli originari di tutto il Chiapas si ritrovarono a dibattere di terra, commercio, salute ed educazione, e pretesero una maggiore indipendenza dalla diocesi meticcia di San Cristóbal. Samuel Ruiz rispose formando e nominando diaconi maya, che iniziarono a lavorare nelle comunità predicando un “cattolicesimo indigeno”.

Il cattolicesimo del Tatic Samuel credeva nelle idee della teologia della liberazione, cristallizzate nel 1968 durante la Conferenza Episcopale di Medellín (Colombia). Quando Don Ruiz García arrivò in Chiapas dal nord del Messico, all’inizio degli anni ‘60, era un conservatore. “Quando sono arrivato vedevo le chiese piene di indios, ma solo più tardi mi sono reso conto della sofferenza di questa gente, della triste realtà, che ha suscitato un processo di conversione dentro di me”, ha affermato il sacerdote. A piedi e a cavallo, don Samuel viaggiò per tutto il Chiapas predicando, anche nelle zone più remote, il messaggio di emancipazione sociale e politica contenuto nel Vangelo, dicendo agli indigeni che la giustizia e la felicità si potevano raggiungere in terra, senza aspettare il paradiso.

Quando poi scoprì che l’incontro tra i suoi fedeli e i membri del FLN aveva portato alla nascita del EZLN, decise di arginare quello che considerava un “cammino verso la morte”. Cercò quindi di indurre i maya a isolare i guerriglieri, dicendo che erano meticci venuti da fuori con idee contrarie all’idiosincrasia indigena. Ma ormai era troppo tardi.

Samuel Ruiz non avrebbe mai potuto pensare che il suo lavoro di predicazione avrebbe spinto migliaia di indigeni a prendere in mano le armi. E non avrebbe mai potuto pensare che il giorno dei suoi funerali, il 26 gennaio 2011, la cattedrale di San Cristóbal sarebbe stata piena di anarchici e rivoluzionari.

Articolo pubblicato sul mensile Arivista nel luglio 2014.

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